Un recente articolo del New York Times* descrive un nuovo modello di ristorazione dove il feed-back dei commensali non solo determina se un piatto rimane in menu, ma anche la sorte dello chef. Ideato due anni fa a New Orleans da Brian Bordainick, Dinner Lab è finanziato da un gruppo di 25 investitori che hanno scommesso 2.1 milioni di dollari sul fatto che “big data” rappresenterà il futuro dell’alta cucina.
La società è fondata sul concetto di un club: i “membri” versano una quota annuale (da $100-$175 secondo la città) per essere invitati a tutti gli eventi programmati in quel luogo. Inoltre, pagano da $50 a $80 a testa per ciascun pasto (bevande e mance incluse). Nelle grandi metropoli come New York e Los Angeles sono programmate anche fino a tre cene per settimana. Cavalcando la moda (e la logica) dei negozi “pop-up”, questi eventi sono itineranti e le loro location molto eclettiche (il tetto di un parcheggio multipiano, il piazzale di un negozio di motociclette). Gli inviti partono con relativamente poco preavviso (2-3 giorni al massimo) e mentre tutta la faccenda gode di un’aria d’improvvisata convivialità, lo stile dietro le quinte è decisamente più rigoroso.
Gli chef sono in competizione. Reclutati da ristoranti stellati sono perlopiù i secondi in comando di personaggi noti. Giovani e ambiziosi, hanno il talento e l’esperienza per guidare una cucina importante, ma non dispongono di finanziatori. Dinner Lab funziona come una specie di reality show senza la TV. Ai commensali – foodie accaniti, bon vivant e anche altri aspiranti chef – vengono distribuiti questionari sul menu della serata e rispondere fa parte dei loro doveri. Gli invitati sanno di costituire una giuria e gli chef sono consapevoli di fornire lo spettacolo. Agli chef è concessa anche la possibilità di perorare la propria causa con una sorta di arringa nella quale possono parlare della loro formazione e del concetto che sta alla base del menu presentato. Incoraggiati a mischiarsi con la folla post-performance, sono giudicati anche sulla loro abilità di cogliere critiche e consigli, affinando il loro menu per il successivo giro di gara.
In palio per gli chef la possibilità di assumere il comando di un ristorante “tradizionale” (nel senso che avrebbe un indirizzo fisso) del gruppo Lab. Oltre all’esperienza conviviale in se, ai commensali resta la gratificazione di far parte di un club di conoscenti che vanta una certa influenza. Poi ci sono i dati. Ad oggi Dinner Lab opera in venti città con eventi che coinvolgono mediamente 120 ospiti. Raccolgono dati preziosi su quello che piace e non piace a migliaia di potenziali clienti, i dati distillati da quelli che sono essenzialmente focus group in un’ampia gamma di città, i dati che misurano le reazioni al rapporto prezzo/qualità, i dati che fanno intuire che “per trasformare un pasto in un’esperienza, è necessario confezionarlo come un racconto” in cui lo chef protagonista di umili origini supera tanti ostacoli per diventare una star.
Bordainick ammette che lo scopo originale dell’esperimento fu proprio quello di vendere i dati, ma l’alta ristorazione americana è stata poco ricettiva all’idea. Sembra che la preferenza vigente sia quella di fidarsi della propria esperienza sul campo e non di inquinare le idee con dati altrui. È logico che gli imprenditori più avveduti siano diffidenti di fronte a dati che non sono stati raccolti ed analizzati con metodi rigorosamente scientifici, ma non vuol dire che l’idea di base sia errata. Ogni giorni scopriamo quanto siamo guidati (per usare un eufemismo) dalle aziende (Google, Amazon) che hanno la possibilità di filtrare masse di dati sulle preferenze dei consumatori. Anche se molti di noi nutrono l’idea di essere immuni a qualsiasi tipo d’influenza, studi di diversi settori continuano a dimostrare quanto sia una illusione.
Dinner Lab può garantire chiari vantaggi agli esercizi sotto la propria tutela. All’apertura, possono attingere a una clientela di base precostituita con una certa influenza, disporre di una mailing list ben nutrita e sapere, con molta precisione, cosa piace alla gente di una certa fascia di reddito. Partono avvantaggiati rispetto ad altri start-up nello stesso mercato e fanno riflettere sul fatto che il campo di battaglia si estende ben oltre la cucina. Nell’affascinante e ultra-competitivo mercato della ristorazione, il sapere strettamente legato alla potenziale clientela – inteso come preferenze, abitudini e dati comportamentali – assumerà un peso crescente.
Rimane la domanda su chi conduce le danze. Il ristoratore, sempre più ricco di dati, modellerà l’offerta insieme allo chef, complice del delicato lavoro di marketing. La sua giacca bianca assumerà sempre di più le sembianze del camice di uno scienziato? E al “pubblico” è riservato il ruolo di topo da laboratorio? Di certo non ci sarà festa se i topi non balleranno.
* Segal, David – Diner Lab Brings the Wisdom of Crowds to Haute Cuisine – 30/8/2014.
A sinistra: pannello di controllo del forno Naboo di Lainox L’informatica ha cambiato i nostri metodi di lavorare, di comunicare e di divertirsi in modi che dieci anni fa non erano minimamente contemplati. Ogni ciclo d’innovazione porta con se profondi ribaltamenti anche in settori che si credeva immuni da tali “contaminazioni”. Lo chef di cucina …
Uno strumento utilissimo per lo chef che viaggia spesso e deve ridurre il suo equipaggiamento al minimo, Range trasforma l’iPhone e l’iPad in un termometro. Un cavo in silicone collega la sonda al portale audio del device e un’app gratuita rende il tutto pronto per l’utilizzo.
Big data e il futuro della ristorazione: la scomessa di Dinner Lab
Un recente articolo del New York Times* descrive un nuovo modello di ristorazione dove il feed-back dei commensali non solo determina se un piatto rimane in menu, ma anche la sorte dello chef. Ideato due anni fa a New Orleans da Brian Bordainick, Dinner Lab è finanziato da un gruppo di 25 investitori che hanno scommesso 2.1 milioni di dollari sul fatto che “big data” rappresenterà il futuro dell’alta cucina.
La società è fondata sul concetto di un club: i “membri” versano una quota annuale (da $100-$175 secondo la città) per essere invitati a tutti gli eventi programmati in quel luogo. Inoltre, pagano da $50 a $80 a testa per ciascun pasto (bevande e mance incluse). Nelle grandi metropoli come New York e Los Angeles sono programmate anche fino a tre cene per settimana. Cavalcando la moda (e la logica) dei negozi “pop-up”, questi eventi sono itineranti e le loro location molto eclettiche (il tetto di un parcheggio multipiano, il piazzale di un negozio di motociclette). Gli inviti partono con relativamente poco preavviso (2-3 giorni al massimo) e mentre tutta la faccenda gode di un’aria d’improvvisata convivialità, lo stile dietro le quinte è decisamente più rigoroso.
Gli chef sono in competizione. Reclutati da ristoranti stellati sono perlopiù i secondi in comando di personaggi noti. Giovani e ambiziosi, hanno il talento e l’esperienza per guidare una cucina importante, ma non dispongono di finanziatori. Dinner Lab funziona come una specie di reality show senza la TV. Ai commensali – foodie accaniti, bon vivant e anche altri aspiranti chef – vengono distribuiti questionari sul menu della serata e rispondere fa parte dei loro doveri. Gli invitati sanno di costituire una giuria e gli chef sono consapevoli di fornire lo spettacolo. Agli chef è concessa anche la possibilità di perorare la propria causa con una sorta di arringa nella quale possono parlare della loro formazione e del concetto che sta alla base del menu presentato. Incoraggiati a mischiarsi con la folla post-performance, sono giudicati anche sulla loro abilità di cogliere critiche e consigli, affinando il loro menu per il successivo giro di gara.
In palio per gli chef la possibilità di assumere il comando di un ristorante “tradizionale” (nel senso che avrebbe un indirizzo fisso) del gruppo Lab. Oltre all’esperienza conviviale in se, ai commensali resta la gratificazione di far parte di un club di conoscenti che vanta una certa influenza. Poi ci sono i dati. Ad oggi Dinner Lab opera in venti città con eventi che coinvolgono mediamente 120 ospiti. Raccolgono dati preziosi su quello che piace e non piace a migliaia di potenziali clienti, i dati distillati da quelli che sono essenzialmente focus group in un’ampia gamma di città, i dati che misurano le reazioni al rapporto prezzo/qualità, i dati che fanno intuire che “per trasformare un pasto in un’esperienza, è necessario confezionarlo come un racconto” in cui lo chef protagonista di umili origini supera tanti ostacoli per diventare una star.
Bordainick ammette che lo scopo originale dell’esperimento fu proprio quello di vendere i dati, ma l’alta ristorazione americana è stata poco ricettiva all’idea. Sembra che la preferenza vigente sia quella di fidarsi della propria esperienza sul campo e non di inquinare le idee con dati altrui. È logico che gli imprenditori più avveduti siano diffidenti di fronte a dati che non sono stati raccolti ed analizzati con metodi rigorosamente scientifici, ma non vuol dire che l’idea di base sia errata. Ogni giorni scopriamo quanto siamo guidati (per usare un eufemismo) dalle aziende (Google, Amazon) che hanno la possibilità di filtrare masse di dati sulle preferenze dei consumatori. Anche se molti di noi nutrono l’idea di essere immuni a qualsiasi tipo d’influenza, studi di diversi settori continuano a dimostrare quanto sia una illusione.
Dinner Lab può garantire chiari vantaggi agli esercizi sotto la propria tutela. All’apertura, possono attingere a una clientela di base precostituita con una certa influenza, disporre di una mailing list ben nutrita e sapere, con molta precisione, cosa piace alla gente di una certa fascia di reddito. Partono avvantaggiati rispetto ad altri start-up nello stesso mercato e fanno riflettere sul fatto che il campo di battaglia si estende ben oltre la cucina. Nell’affascinante e ultra-competitivo mercato della ristorazione, il sapere strettamente legato alla potenziale clientela – inteso come preferenze, abitudini e dati comportamentali – assumerà un peso crescente.
Rimane la domanda su chi conduce le danze. Il ristoratore, sempre più ricco di dati, modellerà l’offerta insieme allo chef, complice del delicato lavoro di marketing. La sua giacca bianca assumerà sempre di più le sembianze del camice di uno scienziato? E al “pubblico” è riservato il ruolo di topo da laboratorio? Di certo non ci sarà festa se i topi non balleranno.
* Segal, David – Diner Lab Brings the Wisdom of Crowds to Haute Cuisine – 30/8/2014.
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