La nostra casa editrice ha sempre riservato una particolare attenzione alla cura della qualità fotografica dei libri pubblicati, convinti che il crescente interesse verso la cucina, non sia stato determinato solo dalla bravura degli chef, ma anche dalla capacità di quei bravissimi fotografi che con il loro talento e la loro sensibilità, riescono a catturare tutte le caratteristiche di una pietanza, rendendo il piatto così vivido e appetitoso che ne possiamo quasi intuire il profumo e la consistenza. A loro è dedicata questa rubrica nella quale essi si raccontano e ci raccontano la loro esperienza in merito all’argomento.
Fotografa, un figlio, due cani e un socio con cui condivide il lavoro sull’immagine da quasi 30 anni. La sua produzione è il frutto di uno sguardo trasversale fra i generi fotografici con una particolare attenzione al mondo del food in cui è specializzata da anni. Frequenta l’alta gastronomia internazionale e ha ritratto cuochi del calibro di Gualtiero Marchesi, René Redzepi, Massimo Bottura, Carlo Cracco, Juan Roca, Hélène Darroze, Martin Berasategui, Ferran Adrià, Davide Scabin, Davide Oldani. Dal 1990 realizza mostre personali e collettive ricercando nel dettaglio la metafora del tutto. Collabora con molte testate italiane e straniere, tra cui Elle a Tavola, Marie Claire Maison, Vanity Fair, La Cucina Italiana, New York Times Magazine, Glamour France, Saveur, ArtCulinaire, Der Feinschmecker, Monocle, oltre a collaborazioni con clienti come Barilla, Rana, Birra Moretti, Olio Carli, Bauli, Bindi, Findus, Bormioli. Nel 2011 è stata insignita del primo premio internazionale al FoodPhoto Festival di Tarragona, nella sezione Food Feature dedicata al miglior reportage food dell’anno. Alterna il nomadismo a viaggi stanziali tra le pareti del suo studio. Oltre a fotografare, mangia e cucina cibi di tutto il mondo, riuscendo tuttavia a mantenere la linea. Grazie ai continui incontri ravvicinati con grandi chef e alle numerose tappe nei migliori ristoranti del mondo, è capace di trasformarsi all’occorrenza in fine critico gastronomico. Vive e lavora a Milano.
Hai sempre desiderato fare la fotografa di food, oppure questa specializzazione rappresenta un’evoluzione inaspettata del tuo percorso professionale? Ho sempre voluto fare la fotografa, fin da ragazzina, ancora al liceo, avevo in mente questa professione. Sono diventata una fotografa di food in un secondo tempo. Ho percorso vari generi, alcuni superficialmente altri, come lo still-life, in modo approfondito. Certo, non tutti i soggetti di still-life si equivalgono: scarpe e borse non sono come pasticcini e quenelle, ma in entrambi i casi il professionista deve cimentarsi con il tema della luce e riuscire ad esprimere un’emozione con soggetti inanimati. Tutta l’esperienza fatta con lo still-life mi è stata molto utile e formativa, così come quella fatta nel mondo del reportage, attività che pratico tuttora. Sono una story-teller con il food come protagonista.
Ci sono figure chiave nel tuo sviluppo? Maestri? Ispiratori? Quando ho iniziato il grande mito è stato Giovanni Gastel. Sono riuscita ad andare nel suo studio e, per un certo periodo, a seguirlo. Può sembrare che il suo tipo di lavoro non centri molto con quello che sono diventata, ma il suo approccio, la sua eleganza e l’estrema raffinatezza mi colpì e mi colpisce ancora. Adriano Brusaferri è stato un altro grandissimo maestro da ammirare ed è stato anche piacevole ricevere da lui complimenti anni dopo. Ci siamo reciprocamente stimati. Oltre ai colleghi viventi ci sono i grandi maestri del passato. Irving Penn, che fece still-life straordinari, anticipatori dei tempi. Il cibo congelato, il cibo avanzato nel piatto, i fiori appassiti, i frutti con le ammaccature: queste immagini erano di grande rottura, intuizioni formidabili.
In un periodo in cui siamo bombardati da immagini, come fai il “resettaggio”, quella cosa che ti permette di vedere oltre questo vortice di stimoli e trovare nuove prospettive? Trovo che questo sia possibile solo avendo osservato molto. Ho fatto, come credo tutti quelli della mia generazione, grandissima incetta di immagini attraverso mostre, libri, viaggi. Tanto vedere mi ha fornito gli strumenti che oggi mi servono per codificare quello che vedo. Anche la pittura è stata fondamentale – aver visto i quadri di Caravaggio, i fiamminghi, ma anche i maestri contemporanei. Credo che tutto questo bagaglio visivo mi abbia fornito gli strumenti per orientarmi nello tsunami di immagini odierno.
I social media stanno educando l’occhio a riconoscere la qualità oppure la qualità rischia di disperdersi nella massa? Se non hai degli strumenti per decodificare, probabilmente sì, la qualità si disperde nella massa. L’insieme di immagini che vengono promosse dai social media – o meglio su Instagram, che è l’unico che frequento abbastanza per poter formulare un’opinione – lo vivo più come serbatoio di informazioni generali che di informazioni visive. Non è come andare a vedere una mostra di David Hockney a Londra, ma può servire per sapere che c’è una mostra di David Hockney e magari andarci.
Trovi che i social contribuiscano ad una banalizzazione delle immagini (soprattutto del food)? Si ha la sensazione che siano in tanti a documentare ogni pasto. Un po’ sì. Il nostro tempo sta vivendo una sorta di egocentrismo. C’è una necessità di creare legami attraverso la condivisione di quello che ognuno di noi fa. Trovo che sia un segno di debolezza. Non c’è un punto fermo, ma comunicazione senza un progetto. In molti casi le immagini sono divertenti, ma non possono superare il loro tempo se non c’è un progetto di base.
Location o studio? Non ho un luogo prediletto. Sono figlia di reportage e di viaggi. Il luogo “giusto” viene definito secondo il progetto. Se il progetto merita un certo contesto, ci si muove se no si resta. Muoversi necessariamente è uno spunto creativo in più. C’è l’imprevedibile. Lo studio equivale al puro controllo e alla gestione dei tuoi strumenti, dei tuoi fondi, degli angoli che conosci. Mi piace che ci sia l’imprevisto temporale, l’elemento di rottura che crea più interesse. Anche nell’epoca digitale vale l’idea di cogliere l’attimo. La bella foto non diventa tale perché qualcuno ha fatto una straordinaria post produzione. Una luce gestita in un certo modo, un attimo colto al volo non si raggiungono con la post produzione. Li hai intuiti tu oppure non ci sono. Esistono ancora belle foto e brutte foto a prescindere dal digitale o dalla post-produzione.
Il bagaglio della fotografia digitale – post-produzione, aggiornamenti software, la rapida evoluzione di sistemi, opzioni, ecc. è un fardello o un divertimento? Ti occupi personalmente o preferisci delegare? Non è un divertimento, lo vivo con fatica. Non sono una donna tecnologica, sono più emotiva. Trovo che i colleghi maschi vivano la parte tecnica come la passione per l’automobile. Io preferisco delegare, per fortuna ho un socio che se ne occupa anche se discutiamo le scelte insieme. Non è lo strumento in sè che m’interessa, ma il progetto. So abbastanza per poter fare richieste, dirigere chi è più esperto di me ed ottenere i risultati che desidero. Le discussioni prolungate sui meriti di un flash piuttosto che un altro, le trovo di una noia mortale. Sono fedele alla stessa macchina da anni.
Una foto di Francesca Moscheni dimostra una sensibilità particolare in fatto di styling, un occhio pittorico. Perché? Lo still-life è un punto focale della mia vita. L’oggetto in sè è fonte di grandissimo fascino. Il lavoro dello stylist mi attrae ed apprezzo lo scambio con professionisti di valore. Ho un particolare amore per gli oggetti, per le cose vissute e non parliamo degli oggetti per la tavola… alla fondazione Cini a Venezia ci sono state una serie di mostre sui vetri, dove mi sono persa per ore, gli oggetti possono essere portatori di una poesia incredibile. Non sono una vera e propria collezionista, ma ho lo studio pieno di oggetti che ho raccolto negli anni, con il loro vissuto e la loro storia. Dietro di loro ci sono sempre le persone e le loro vicende.
Il rapporto con altri creativi è fondamentale, soprattutto nel lavoro corporate. Quando ci sono molti occhi nella stanza, come ti regoli? Come si fa a blandire gli ego e fare il tuo lavoro? È molto difficile. Da una parte il lavoro di squadra è straordinario. Se rispetti gli altri, di solito quella stima ti viene restituita e ci può essere un ottimo incontro di menti, ma spesso non è così fiabesco. Me la gioco d’istinto, lascio andare cose che reputo irrilevanti e cerco di lottare per le cose più importanti. Quando si scatta un’immagine per la pubblicità, lo scopo non va mai dimenticato: dobbiamo far felice il cliente. La gratificazione personale non deve essere particolarmente alimentata. Se sto facendo uno scatto per una mostra personale è giusto puntare i piedi. Se sto lavorando su un libro, devo tentare di vedere tutto il progetto. Nel lavoro corporate è essenziale trovare la giusta distanza. Di sicuro sono armonie difficili da gestire, ci vuole professionalità.
Dopo anni di lavoro esistono ancora sfide tecniche? Dopo anni di lavoro finalmente i problemi tecnici non impensieriscono più. Ci sono ancora sfide, ma sono prive d’ansia. Ci sono cose difficili che non so fare, ma trovo sempre il modo di risolvere il problema. Mi preoccupano di più i rapporti umani che sono decisamente più delicati da gestire..
I video sono una novità. Il video è stato una casualità. Sono stata chiamata da un produttore per fare degli esperimenti. All’inizio un po’ mi spaventava. Il passaggio dall’immagine still all’immagine in movimento non è banale. Ci ho messo un po’ a capire veramente, ma adesso impiego la tecnica senza particolari ansie. In un grosso gruppo di produzione, non devi saper fare tutto, ma dirigere sapientemente tutti. Alla fine ho imparato come funziona la grammatica: un video è una storia raccontata, nè più, nè meno. Guardando la cosa con il dovuto distacco, sembra più facile raccontare una storia in movimento che farlo con immagini ferme perché queste devono riassumere molto in un fotogramma, mentre l’immagine in movimento può raccontare di più, svolgendosi nel tempo. Sono due linguaggi che sembrano simili, ma non lo sono. Devo fare ancora parecchia strada, ma è una storia interessante.
Progetti personali, percorsi al di fuori del solito lavoro editoriale e/o corporate? Ho fatto parecchie mostre sia collettive che personali in questi trent’anni di professione. Dopo un periodo di fermo ho ripreso ad occuparmi di ricerca personale. E’ un punto importante e separato dall’attività commerciale. Lavoro per pagare l’affitto, lo dico senza vergogna, ma la propria pulsione espressiva va assecondata. I progetti futuri sono di fare ancora di più in questo senso.
Come scegli i temi? Sedimentano in modo strano; descrivere il processo creativo è molto difficile. Seguo dei sentieri istintivamente. Guardo, scatto e poi nel tempo si compone un quadro nel quale noto che ci sono delle cose che parlano tra di loro, magari a distanza di tempo. Si compone così in modo inconscio inizialmente e lascio che l’istinto mi dica di fare una cosa, piuttosto che un’altra perché so che affioreranno dei legami.
Mettiti dall’altra parte della lente, soprattutto tornando in ambito food, c’è un brief che ti piacerebbe ricevere? In ambito editoriale si tende a seguire l’onda. E’ difficile osare quando devono tornare i conti. I giornali fanno servizi necessariamente brevi e non hanno modo di impiegare le pagine per cose che non siano destinate a uno specifico argomento, per pura bellezza. Le aperture doppie di grande effetto sono un costo. Un servizio di otto pagine è più coraggioso di un servizio di sei pagine. Alla fine sono ancora i libri che offrono più spazio. Mi piace quando mi viene chiesto di raccontare una storia e di poterne trovare i dettagli significativi. Anche le briciole hanno qualcosa da dire. Vorrei avere la libertà di poter articolare una storia diversamente da chi deve solo vendere.
Il tuo rapporto personale con il cibo? Sei una buongustaia, una cuoca con i fiocchi? Adoro il cibo, adoro stare a tavola e conoscere le culture gastronomiche degli altri Paesi. Sono stata una discreta cuoca, poi facendo questo lavoro, tra le pentole e il cibo tutto il giorno, mi sono ritrovata a cucinare di meno. In realtà, spesso mi trovo a mangiare gli avanzi di quello che ho fotografato. Ho iniziato con grande entusiasmo e ho fatto la mia discreta bella figura. Ho seguito anche dei corsi di cucina e ho un personale rapporto con i cuochi al di là della pura presentazione di quello che fanno. Sono stata a Londra recentemente, ho trovato un mercato di produttori abbastanza sconosciuto e ho assaggiato di tutto, perché il cibo va assaggiato e condiviso. E’ stata un’esperienza sensoriale eccezionale. Riconosco sempre i colleghi che non amano il cibo, le loro immagini sono un po’ algide, troppo patinate, costruite.
In chiusura, ci lasceresti un’immagine di food che parla per te?
Quando si parla di talenti in fuga si pensa sempre agli scienziati e ai ricercatori che trovano in altre nazioni la possibilità di esprimere al meglio il loro sapere. Una categoria poco citata è quella dei cuochi, spesso nomadi più per scelta che per necessità, che hanno colto una opportunità di lavoro e trovato in …
È sotto gli occhi di tutti che il settore della ristorazione sia tra i più penalizzati dalle restrizioni anti Covid. Distanziamento e isolamento dei tavoli e una infinita serie di accorgimenti necessari per il contenimento del contagio non sono bastati ad arginare il virus e così, a fasi alterne, assistiamo a parziali chiusure e repentine …
Negli ultimi anni abbiamo assistito a velocissimi cambiamenti e tendenze nel mondo del bartending anche in relazione al mondo della ristorazione. Penso che questi due ambiti professionali abbiano ripreso a dialogare tra loro una decina di anni fa con la comparsa del mixologist e dello chef molecolare, tu sei d’accordo? Si pienamente d’accordo! Dopo l’inserimento, almeno …
Viviamo in un’epoca in cui la fotografia del cibo è onnipresente. Siamo bombardati da immagini di cibo nella pubblicità, sui social media e nei libri di cucina. Ne L’Equazione del gusto, l’autore Nik Sharma sapeva fin dall’inizio che alcuni concetti sarebbero stati meglio espressi attraverso illustrazioni e infografiche e questo ci sembra un gradito allontanamento …
Parola ai fotografi – Francesca Moscheni
La nostra casa editrice ha sempre riservato una particolare attenzione alla cura della qualità fotografica dei libri pubblicati, convinti che il crescente interesse verso la cucina, non sia stato determinato solo dalla bravura degli chef, ma anche dalla capacità di quei bravissimi fotografi che con il loro talento e la loro sensibilità, riescono a catturare tutte le caratteristiche di una pietanza, rendendo il piatto così vivido e appetitoso che ne possiamo quasi intuire il profumo e la consistenza. A loro è dedicata questa rubrica nella quale essi si raccontano e ci raccontano la loro esperienza in merito all’argomento.
Fotografa, un figlio, due cani e un socio con cui condivide il lavoro sull’immagine da quasi 30 anni. La sua produzione è il frutto di uno sguardo trasversale fra i generi fotografici con una particolare attenzione al mondo del food in cui è specializzata da anni. Frequenta l’alta gastronomia internazionale e ha ritratto cuochi del calibro di Gualtiero Marchesi, René Redzepi, Massimo Bottura, Carlo Cracco, Juan Roca, Hélène Darroze, Martin Berasategui, Ferran Adrià, Davide Scabin, Davide Oldani. Dal 1990 realizza mostre personali e collettive ricercando nel dettaglio la metafora del tutto. Collabora con molte testate italiane e straniere, tra cui Elle a Tavola, Marie Claire Maison, Vanity Fair, La Cucina Italiana, New York Times Magazine, Glamour France, Saveur, ArtCulinaire, Der Feinschmecker, Monocle, oltre a collaborazioni con clienti come Barilla, Rana, Birra Moretti, Olio Carli, Bauli, Bindi, Findus, Bormioli. Nel 2011 è stata insignita del primo premio internazionale al FoodPhoto Festival di Tarragona, nella sezione Food Feature dedicata al miglior reportage food dell’anno. Alterna il nomadismo a viaggi stanziali tra le pareti del suo studio. Oltre a fotografare, mangia e cucina cibi di tutto il mondo, riuscendo tuttavia a mantenere la linea. Grazie ai continui incontri ravvicinati con grandi chef e alle numerose tappe nei migliori ristoranti del mondo, è capace di trasformarsi all’occorrenza in fine critico gastronomico. Vive e lavora a Milano.
Ha collaborato con Bibliotheca Culinaria su: Tavole d’autore, Non solo centrifughe, Fior di pizza, Pasta fresca, Finger food in festa, Gelati sorbetti e dolci ghiacciati, Il formaggio in cucina, Cioccolato facile e veloce con il microonde, Facile pratico veloce Microonde!
Hai sempre desiderato fare la fotografa di food, oppure questa specializzazione rappresenta un’evoluzione inaspettata del tuo percorso professionale?
Ho sempre voluto fare la fotografa, fin da ragazzina, ancora al liceo, avevo in mente questa professione. Sono diventata una fotografa di food in un secondo tempo. Ho percorso vari generi, alcuni superficialmente altri, come lo still-life, in modo approfondito. Certo, non tutti i soggetti di still-life si equivalgono: scarpe e borse non sono come pasticcini e quenelle, ma in entrambi i casi il professionista deve cimentarsi con il tema della luce e riuscire ad esprimere un’emozione con soggetti inanimati. Tutta l’esperienza fatta con lo still-life mi è stata molto utile e formativa, così come quella fatta nel mondo del reportage, attività che pratico tuttora. Sono una story-teller con il food come protagonista.
Ci sono figure chiave nel tuo sviluppo? Maestri? Ispiratori?
Quando ho iniziato il grande mito è stato Giovanni Gastel. Sono riuscita ad andare nel suo studio e, per un certo periodo, a seguirlo. Può sembrare che il suo tipo di lavoro non centri molto con quello che sono diventata, ma il suo approccio, la sua eleganza e l’estrema raffinatezza mi colpì e mi colpisce ancora.
Adriano Brusaferri è stato un altro grandissimo maestro da ammirare ed è stato anche piacevole ricevere da lui complimenti anni dopo. Ci siamo reciprocamente stimati.
Oltre ai colleghi viventi ci sono i grandi maestri del passato. Irving Penn, che fece still-life straordinari, anticipatori dei tempi. Il cibo congelato, il cibo avanzato nel piatto, i fiori appassiti, i frutti con le ammaccature: queste immagini erano di grande rottura, intuizioni formidabili.
In un periodo in cui siamo bombardati da immagini, come fai il “resettaggio”, quella cosa che ti permette di vedere oltre questo vortice di stimoli e trovare nuove prospettive?
Trovo che questo sia possibile solo avendo osservato molto. Ho fatto, come credo tutti quelli della mia generazione, grandissima incetta di immagini attraverso mostre, libri, viaggi. Tanto vedere mi ha fornito gli strumenti che oggi mi servono per codificare quello che vedo. Anche la pittura è stata fondamentale – aver visto i quadri di Caravaggio, i fiamminghi, ma anche i maestri contemporanei. Credo che tutto questo bagaglio visivo mi abbia fornito gli strumenti per orientarmi nello tsunami di immagini odierno.
I social media stanno educando l’occhio a riconoscere la qualità oppure la qualità rischia di disperdersi nella massa?
Se non hai degli strumenti per decodificare, probabilmente sì, la qualità si disperde nella massa. L’insieme di immagini che vengono promosse dai social media – o meglio su Instagram, che è l’unico che frequento abbastanza per poter formulare un’opinione – lo vivo più come serbatoio di informazioni generali che di informazioni visive. Non è come andare a vedere una mostra di David Hockney a Londra, ma può servire per sapere che c’è una mostra di David Hockney e magari andarci.
Trovi che i social contribuiscano ad una banalizzazione delle immagini (soprattutto del food)? Si ha la sensazione che siano in tanti a documentare ogni pasto.
Un po’ sì. Il nostro tempo sta vivendo una sorta di egocentrismo. C’è una necessità di creare legami attraverso la condivisione di quello che ognuno di noi fa. Trovo che sia un segno di debolezza. Non c’è un punto fermo, ma comunicazione senza un progetto. In molti casi le immagini sono divertenti, ma non possono superare il loro tempo se non c’è un progetto di base.
Location o studio?
Non ho un luogo prediletto. Sono figlia di reportage e di viaggi. Il luogo “giusto” viene definito secondo il progetto. Se il progetto merita un certo contesto, ci si muove se no si resta. Muoversi necessariamente è uno spunto creativo in più. C’è l’imprevedibile. Lo studio equivale al puro controllo e alla gestione dei tuoi strumenti, dei tuoi fondi, degli angoli che conosci. Mi piace che ci sia l’imprevisto temporale, l’elemento di rottura che crea più interesse. Anche nell’epoca digitale vale l’idea di cogliere l’attimo. La bella foto non diventa tale perché qualcuno ha fatto una straordinaria post produzione. Una luce gestita in un certo modo, un attimo colto al volo non si raggiungono con la post produzione. Li hai intuiti tu oppure non ci sono. Esistono ancora belle foto e brutte foto a prescindere dal digitale o dalla post-produzione.
Il bagaglio della fotografia digitale – post-produzione, aggiornamenti software, la rapida evoluzione di sistemi, opzioni, ecc. è un fardello o un divertimento? Ti occupi personalmente o preferisci delegare?
Non è un divertimento, lo vivo con fatica. Non sono una donna tecnologica, sono più emotiva. Trovo che i colleghi maschi vivano la parte tecnica come la passione per l’automobile. Io preferisco delegare, per fortuna ho un socio che se ne occupa anche se discutiamo le scelte insieme. Non è lo strumento in sè che m’interessa, ma il progetto. So abbastanza per poter fare richieste, dirigere chi è più esperto di me ed ottenere i risultati che desidero. Le discussioni prolungate sui meriti di un flash piuttosto che un altro, le trovo di una noia mortale. Sono fedele alla stessa macchina da anni.
Una foto di Francesca Moscheni dimostra una sensibilità particolare in fatto di styling, un occhio pittorico. Perché?
Lo still-life è un punto focale della mia vita. L’oggetto in sè è fonte di grandissimo fascino. Il lavoro dello stylist mi attrae ed apprezzo lo scambio con professionisti di valore. Ho un particolare amore per gli oggetti, per le cose vissute e non parliamo degli oggetti per la tavola… alla fondazione Cini a Venezia ci sono state una serie di mostre sui vetri, dove mi sono persa per ore, gli oggetti possono essere portatori di una poesia incredibile. Non sono una vera e propria collezionista, ma ho lo studio pieno di oggetti che ho raccolto negli anni, con il loro vissuto e la loro storia. Dietro di loro ci sono sempre le persone e le loro vicende.
Il rapporto con altri creativi è fondamentale, soprattutto nel lavoro corporate. Quando ci sono molti occhi nella stanza, come ti regoli? Come si fa a blandire gli ego e fare il tuo lavoro?
È molto difficile. Da una parte il lavoro di squadra è straordinario. Se rispetti gli altri, di solito quella stima ti viene restituita e ci può essere un ottimo incontro di menti, ma spesso non è così fiabesco. Me la gioco d’istinto, lascio andare cose che reputo irrilevanti e cerco di lottare per le cose più importanti. Quando si scatta un’immagine per la pubblicità, lo scopo non va mai dimenticato: dobbiamo far felice il cliente. La gratificazione personale non deve essere particolarmente alimentata. Se sto facendo uno scatto per una mostra personale è giusto puntare i piedi. Se sto lavorando su un libro, devo tentare di vedere tutto il progetto. Nel lavoro corporate è essenziale trovare la giusta distanza. Di sicuro sono armonie difficili da gestire, ci vuole professionalità.
Dopo anni di lavoro esistono ancora sfide tecniche?
Dopo anni di lavoro finalmente i problemi tecnici non impensieriscono più. Ci sono ancora sfide, ma sono prive d’ansia. Ci sono cose difficili che non so fare, ma trovo sempre il modo di risolvere il problema. Mi preoccupano di più i rapporti umani che sono decisamente più delicati da gestire..
I video sono una novità.
Il video è stato una casualità. Sono stata chiamata da un produttore per fare degli esperimenti. All’inizio un po’ mi spaventava. Il passaggio dall’immagine still all’immagine in movimento non è banale. Ci ho messo un po’ a capire veramente, ma adesso impiego la tecnica senza particolari ansie. In un grosso gruppo di produzione, non devi saper fare tutto, ma dirigere sapientemente tutti. Alla fine ho imparato come funziona la grammatica: un video è una storia raccontata, nè più, nè meno. Guardando la cosa con il dovuto distacco, sembra più facile raccontare una storia in movimento che farlo con immagini ferme perché queste devono riassumere molto in un fotogramma, mentre l’immagine in movimento può raccontare di più, svolgendosi nel tempo. Sono due linguaggi che sembrano simili, ma non lo sono. Devo fare ancora parecchia strada, ma è una storia interessante.
Progetti personali, percorsi al di fuori del solito lavoro editoriale e/o corporate?
Ho fatto parecchie mostre sia collettive che personali in questi trent’anni di professione. Dopo un periodo di fermo ho ripreso ad occuparmi di ricerca personale. E’ un punto importante e separato dall’attività commerciale. Lavoro per pagare l’affitto, lo dico senza vergogna, ma la propria pulsione espressiva va assecondata. I progetti futuri sono di fare ancora di più in questo senso.
Come scegli i temi?
Sedimentano in modo strano; descrivere il processo creativo è molto difficile. Seguo dei sentieri istintivamente. Guardo, scatto e poi nel tempo si compone un quadro nel quale noto che ci sono delle cose che parlano tra di loro, magari a distanza di tempo. Si compone così in modo inconscio inizialmente e lascio che l’istinto mi dica di fare una cosa, piuttosto che un’altra perché so che affioreranno dei legami.
Mettiti dall’altra parte della lente, soprattutto tornando in ambito food, c’è un brief che ti piacerebbe ricevere? In ambito editoriale si tende a seguire l’onda. E’ difficile osare quando devono tornare i conti.
I giornali fanno servizi necessariamente brevi e non hanno modo di impiegare le pagine per cose che non siano destinate a uno specifico argomento, per pura bellezza. Le aperture doppie di grande effetto sono un costo. Un servizio di otto pagine è più coraggioso di un servizio di sei pagine. Alla fine sono ancora i libri che offrono più spazio. Mi piace quando mi viene chiesto di raccontare una storia e di poterne trovare i dettagli significativi. Anche le briciole hanno qualcosa da dire. Vorrei avere la libertà di poter articolare una storia diversamente da chi deve solo vendere.
Il tuo rapporto personale con il cibo? Sei una buongustaia, una cuoca con i fiocchi?
Adoro il cibo, adoro stare a tavola e conoscere le culture gastronomiche degli altri Paesi. Sono stata una discreta cuoca, poi facendo questo lavoro, tra le pentole e il cibo tutto il giorno, mi sono ritrovata a cucinare di meno. In realtà, spesso mi trovo a mangiare gli avanzi di quello che ho fotografato. Ho iniziato con grande entusiasmo e ho fatto la mia discreta bella figura. Ho seguito anche dei corsi di cucina e ho un personale rapporto con i cuochi al di là della pura presentazione di quello che fanno. Sono stata a Londra recentemente, ho trovato un mercato di produttori abbastanza sconosciuto e ho assaggiato di tutto, perché il cibo va assaggiato e condiviso. E’ stata un’esperienza sensoriale eccezionale. Riconosco sempre i colleghi che non amano il cibo, le loro immagini sono un po’ algide, troppo patinate, costruite.
In chiusura, ci lasceresti un’immagine di food che parla per te?
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