Nel panorama degli ingredienti utilizzabili in cucina e di cui dovremo tenere una buona scorta, l’aglio entra saldamente fra i più gettonati e usati. Fresco oppure secco, dalla cui testa aperta appaiono i suoi spicchi odorosi, e tutti noi in cucina ne teniamo in bella mostra qualche esemplare sugli scaffali accanto a vasetti di spezie. L’averlo li’ a portata di mano induce spesso al suo uso, un uso che ahimè, talvolta sfocia in abuso e si sa’, quando a farlo è uno Chef famoso scorrono fiumi di inchiostro su blog e social media.
Lo Chef in questione, lo avrete sicuramente riconosciuto, è Carlo Cracco che in una recente trasmissione televisiva ha affermato di mettere l’aglio in camicia nell’Amatriciana. Quelli di Amatrice si sono incazzati di brutto e gli hanno risposto a colpi di guanciale in faccia. L’aglio?? Orrore!!! Scatenamenti mediatici si sussuegono da quell fatidico aglio in camicia, subissando il Carletto di Creazzo a improperi di ogni sorta. Vi anticipo, non sono amico di Cracco e non sono neppure un suo ammiratore (e credo che neppure mai lo sarò) eppure in quest’occasione mi sento d’essere ecumenico di spezzare una lancia a suo favore, valutando la cosa con occhio obiettivo e coscente sulla reale natura della questione aglina.
Agli inizi della mia carriera, quando la cucina era molto meno personalizzata, ma più legata alla tradizione e alla regionalità, ci facevano crescere a suon di sughi di pomodoro, ribollite, salse bolognesi, carbonare, aglio e olio e anche amatriciane. Alcuni dei miei Chef erano ligi (o abbastanza ligi) mettendo nelle loro amatriciane il guanciale di maiale, altri purtroppo bistrattandole con pancetta arrotolata e soffritti di cipolla a julienne (tagliata a striscioline sottili in modo che nel sugo poi si vedesse e si arrotolasse intorno ai bucatini). Insomma, in oltre trent’anni di fare cucina ne ho viste di cotte e di crude da parte di fior fiore di professionisti e talvolta, ora che mi ritrovo io pure dalla parte di quelli considerati tali, vi confesso che posso commettere atti impuri mettendo ingredienti che non sono nelle ricette originali. Lo faccio non per cattiveria e irriverenza ma solo per abitudine e gusto personale. Ora, il considerare l’aglio ago della bilancia sulla onnipotenza del MasterCheffizzato Carlo Cracco, mi pare eccessivo da un lato, dall’altro penso che la notorietà e il successo ha un caro prezzo da pagare e pur essendo convinto che al malcapitato in fine dei conti non interessi granchè della diatriba, questo dovrebbe insegnargli a meditare su quello che fa e a come si propone.
Da questo traggo spunto per chiedermi: la cucina Italiana è stata veramente catalogata e resa unica nel corso degli anni da qualche grande Chef? Di primo acchito mi verrebbe da dire di no. I personaggi che più si siano avvicinati a tale impresa sono stati l’Artusi, che cuoco non era e una grande donna che risponde al nome di Anna Gosetti della Salda. Questa cuoca lo era, onore al merito al sesso considerato debole, che insieme alle altre due sorelle, nella loro redazione de La Cucina Italiana dal 1929 cercavano di nazionalizzare il patrimonio gastronomico dello stivale. Quindi non uno Chef e nel corso degli anni i maschi tentatori di canonizzazione, decifrazione e promulgazione della nostra cucina nazionale si chiamarono Veronelli –enologo ed esperto di vini- Carnacina –maestro di sala- e Buonassisi –gastronomo- tutti sicuramente grandi amanti della buona tavola, tutti che hanno avuto contatti con grandi cuochi ma che di persona non hanno mai indossato la toque, a parte forse per farsi qualche foto promozionale. Accanto a questi guru abbiamo letto i testi di Ada Boni –altra donna- che con il Talismano della felicità faceva da contro altare a Le ricette regionali italiane della Gosetti e alle varie edizioni di Cucchiaio d’argento di autori anonimi. Sorge una domanda: che sia arrivata ora di veramente catalogare la cucina nazionale del 2000 oppure ci teniamo come Bibbia autorevole e irremovibile quel tomo della Gosetti che giunto alla sua diciasettesima edizione ha fatto e fa scuola sulla regionalità del nostro patrimonio gastronomico? Trattasi certamente di un’opera fondamentale di cui ogni cultore del cibo e cuoco dovrebbe far tesoro e fonte di ispirazione ma di cui non mi dispiacerebbe un’analisi approfondita e critica da parte dei maggiori conoscitori della storia della cucina italiana. Un team super partes quali padri costituenti di una vera e finalmente unita cucina italiana di cui sento un bisogno reale e come unica risposta a una così cruenta tenzone, come quella dell’aglio di Cracco.
Tornando a lui e alla sua ricetta dell’amatriciana, gli concederei il perdono momentaneo da questa effrazione consigliandolo di tenersi sempre l’Artusi (magari quello in edizione critica dell’amico Alberto Capatti –che Dio ce lo conservi per molti anni ancora come esempio di saggezza culinaria- e il libro della Gosetti a portata di mano e di padella, dove dicesi che l’aglio nella matriciana non entra per nulla. Poi, a essere sincero con voi, come cuoco potrei sentirmi molto più preso da attacchi di orticaria da altre affermazioni e comportamenti del Carlo nazionale che non sul fatto che se ne sia scivolato sulla buccia dell’aglio. Tutto questo è solo segnale che adesso si sta facendo troppa cucina mediatica e poca di vero fornello. Troppi riflettori e pochi forni realmente operativi. Tutto questo alla lunga porterà a danni gravi: si fa tanta gastronomia spettacolo e poca cultura gastronomica in questo paese. Questo è un grande orrore su cui riflettere e stendere post sui social media. La cultura prepara le nuove generazioni di cuochi e soprattutto di clienti. Un cliente educato e preparato sa cosa ordinare e sa anche distinguere una sana cucina genuina da quella mediocre e da fast food. La mia generazione di cuochi e di clienti è stata costruita a colpi di Panini con mortadella e salame, sughi che “pipiavano” sui bordi della stufa per ore, e tagliatelle fatte in casa. Come pensiamo di costruirla la prossima? A suon di grancassa e Masterchef? Orrore!!!!
Quando l’aglio fa clamore
Nel panorama degli ingredienti utilizzabili in cucina e di cui dovremo tenere una buona scorta, l’aglio entra saldamente fra i più gettonati e usati. Fresco oppure secco, dalla cui testa aperta appaiono i suoi spicchi odorosi, e tutti noi in cucina ne teniamo in bella mostra qualche esemplare sugli scaffali accanto a vasetti di spezie. L’averlo li’ a portata di mano induce spesso al suo uso, un uso che ahimè, talvolta sfocia in abuso e si sa’, quando a farlo è uno Chef famoso scorrono fiumi di inchiostro su blog e social media.
Lo Chef in questione, lo avrete sicuramente riconosciuto, è Carlo Cracco che in una recente trasmissione televisiva ha affermato di mettere l’aglio in camicia nell’Amatriciana. Quelli di Amatrice si sono incazzati di brutto e gli hanno risposto a colpi di guanciale in faccia. L’aglio?? Orrore!!! Scatenamenti mediatici si sussuegono da quell fatidico aglio in camicia, subissando il Carletto di Creazzo a improperi di ogni sorta. Vi anticipo, non sono amico di Cracco e non sono neppure un suo ammiratore (e credo che neppure mai lo sarò) eppure in quest’occasione mi sento d’essere ecumenico di spezzare una lancia a suo favore, valutando la cosa con occhio obiettivo e coscente sulla reale natura della questione aglina.
Agli inizi della mia carriera, quando la cucina era molto meno personalizzata, ma più legata alla tradizione e alla regionalità, ci facevano crescere a suon di sughi di pomodoro, ribollite, salse bolognesi, carbonare, aglio e olio e anche amatriciane. Alcuni dei miei Chef erano ligi (o abbastanza ligi) mettendo nelle loro amatriciane il guanciale di maiale, altri purtroppo bistrattandole con pancetta arrotolata e soffritti di cipolla a julienne (tagliata a striscioline sottili in modo che nel sugo poi si vedesse e si arrotolasse intorno ai bucatini). Insomma, in oltre trent’anni di fare cucina ne ho viste di cotte e di crude da parte di fior fiore di professionisti e talvolta, ora che mi ritrovo io pure dalla parte di quelli considerati tali, vi confesso che posso commettere atti impuri mettendo ingredienti che non sono nelle ricette originali. Lo faccio non per cattiveria e irriverenza ma solo per abitudine e gusto personale. Ora, il considerare l’aglio ago della bilancia sulla onnipotenza del MasterCheffizzato Carlo Cracco, mi pare eccessivo da un lato, dall’altro penso che la notorietà e il successo ha un caro prezzo da pagare e pur essendo convinto che al malcapitato in fine dei conti non interessi granchè della diatriba, questo dovrebbe insegnargli a meditare su quello che fa e a come si propone.
Da questo traggo spunto per chiedermi: la cucina Italiana è stata veramente catalogata e resa unica nel corso degli anni da qualche grande Chef? Di primo acchito mi verrebbe da dire di no. I personaggi che più si siano avvicinati a tale impresa sono stati l’Artusi, che cuoco non era e una grande donna che risponde al nome di Anna Gosetti della Salda. Questa cuoca lo era, onore al merito al sesso considerato debole, che insieme alle altre due sorelle, nella loro redazione de La Cucina Italiana dal 1929 cercavano di nazionalizzare il patrimonio gastronomico dello stivale. Quindi non uno Chef e nel corso degli anni i maschi tentatori di canonizzazione, decifrazione e promulgazione della nostra cucina nazionale si chiamarono Veronelli –enologo ed esperto di vini- Carnacina –maestro di sala- e Buonassisi –gastronomo- tutti sicuramente grandi amanti della buona tavola, tutti che hanno avuto contatti con grandi cuochi ma che di persona non hanno mai indossato la toque, a parte forse per farsi qualche foto promozionale. Accanto a questi guru abbiamo letto i testi di Ada Boni –altra donna- che con il Talismano della felicità faceva da contro altare a Le ricette regionali italiane della Gosetti e alle varie edizioni di Cucchiaio d’argento di autori anonimi. Sorge una domanda: che sia arrivata ora di veramente catalogare la cucina nazionale del 2000 oppure ci teniamo come Bibbia autorevole e irremovibile quel tomo della Gosetti che giunto alla sua diciasettesima edizione ha fatto e fa scuola sulla regionalità del nostro patrimonio gastronomico? Trattasi certamente di un’opera fondamentale di cui ogni cultore del cibo e cuoco dovrebbe far tesoro e fonte di ispirazione ma di cui non mi dispiacerebbe un’analisi approfondita e critica da parte dei maggiori conoscitori della storia della cucina italiana. Un team super partes quali padri costituenti di una vera e finalmente unita cucina italiana di cui sento un bisogno reale e come unica risposta a una così cruenta tenzone, come quella dell’aglio di Cracco.
Tornando a lui e alla sua ricetta dell’amatriciana, gli concederei il perdono momentaneo da questa effrazione consigliandolo di tenersi sempre l’Artusi (magari quello in edizione critica dell’amico Alberto Capatti –che Dio ce lo conservi per molti anni ancora come esempio di saggezza culinaria- e il libro della Gosetti a portata di mano e di padella, dove dicesi che l’aglio nella matriciana non entra per nulla. Poi, a essere sincero con voi, come cuoco potrei sentirmi molto più preso da attacchi di orticaria da altre affermazioni e comportamenti del Carlo nazionale che non sul fatto che se ne sia scivolato sulla buccia dell’aglio. Tutto questo è solo segnale che adesso si sta facendo troppa cucina mediatica e poca di vero fornello. Troppi riflettori e pochi forni realmente operativi. Tutto questo alla lunga porterà a danni gravi: si fa tanta gastronomia spettacolo e poca cultura gastronomica in questo paese. Questo è un grande orrore su cui riflettere e stendere post sui social media. La cultura prepara le nuove generazioni di cuochi e soprattutto di clienti. Un cliente educato e preparato sa cosa ordinare e sa anche distinguere una sana cucina genuina da quella mediocre e da fast food. La mia generazione di cuochi e di clienti è stata costruita a colpi di Panini con mortadella e salame, sughi che “pipiavano” sui bordi della stufa per ore, e tagliatelle fatte in casa. Come pensiamo di costruirla la prossima? A suon di grancassa e Masterchef? Orrore!!!!